Ricordi, all'Isolotto...

Giochi

 

Nei primi anni 60, durante i miei pomeriggi di libertà e di gioco all'Isolotto portavo spesso con me il bagaglio di qualche sottile dispiacere, vari erano i motivi; compiti di scuola non fatti, coscienza di bazzicare amici alle volte discutibili; sigarette fumate di nascosto e altri simili intorcinamenti e dubbi tipici dell’ età di passaggio; sensi di colpa che però non mi impedivano di scorrazzare e divertirmi con leggerezza e curiosità dentro quel nuovo mondo dove la mia famiglia era venuta ad abitare nella primavera del 1960, quando avevo 11 anni.

La rete di stradine e sentieri asfaltati che si dipanava fra le case dell’ Isolotto erano l'ideale per i giochi d’ allora: cannucciate, ciri bè, tappini abarthizzati, sacchetti di palline in terracotta a una lira l’ una, per giocare a chippe, smurielle o piattelle per boccia e palma, ino ino cavallino, mamma troia e tanti altri.

Cerbottane multiple fino a 8 canne, ricavate da lunghi e sottili tubi in metallo per lampadari, distanziate da mollette per il bucato, tenute insieme da kilometri di nastro adesivo e portate in giro con le movenze di marines da films.
L'arma sottobraccio, foglietti alla cintola e pirulini fra i capelli, iniziava la stagione di giocare a "cannucciate". Il pretesto iniziale era la festa della Rificolona; luminoso bersaglio serale per la fisiologica aggressivita dei ragazzi, per un mesetto era tutta una guerriglia favolosa fra bande di ragazzini armati di cerbottana, manualmente impegnati a produrre munizioni cartacee di continuo e a spararsele addosso, anche pericolosamente, sgattaiolando fra i giardini. Poi lentamente la frenesia calava, qualche apprensiva mater interveniva a requisir il ferro, venivano altri giochi....

.... Anche l’ Argingrosso, d'estate, era luogo di gioco e di scoperta; quando l'erba alta e tagliente da verde diventava gialla e secca bastava avere un cartone ondulato sotto il culo a mo’ di slittino per provare l'ebrezza dello scivolare ininterrottamente per 4 o 5 metri lungo l'argine.
Con i calzoni sdruciti e il cartone sotto braccio andavamo in banda e dopo un paio d’ore di discese eravamo pronti per andare verso le draghe, a scalare le pareti scoscese dell’ Arno in cerca di avventura o per sconfinare in qualche campo a caccia di peschi, ciliegi e simili. Una volta un contadino ci beccò a stroncargli gli sparagi e ci rincorse (scalzo) per tutto l'argine ma non ci prese.

Lungo le rive dell'Arno, all’ altezza dell’ attuale pescaia, quando l’ acqua era poca per il caldo, affioravano depositi d'argilla liquida, dove andavamo a sguazzarci per il gusto di lavarsi nella correntina mentre cercavamo Boghe e Lasche sotto i sassi.
Erano gli ultimi bagliori di un rapporto, oramai incrinato, con la natura; presto si sarebbero visti i primi ritorni sull'ambiente, di una crescita economica senza morale e senza regole.

Pochi anni dopo nuvole di schiuma fetida avrebbero riempito la vasca della nuova pescaia da poco costruita; la gente si fermava a guardare quello strano fenomeno: l'acqua cadendo ribolliva malata e produceva enormi agglomerati di schiuma che danzavano sul fiume e che nelle giornate di brezza prendeva ad alzarsi, a volare leggera, spesso si vedeva da Via dei Platani; brandelii di schiuma trascinati da correnti d'aria calda, si staccavano dal grosso e salivano in cielo come i palloncini della canzone di Rascel.

L'Arno, ragazzo cresciuto e imprevedibile, dentro i pantaloni corti delle spallette di Firenze, avrebbe presto detto la sua. Un giorno di novenbre del 66, gonfio d’ acqua e rabbia, imbizzarrito per i troppi spregi, ci dette una notevole risciacquata: ci rese in un sol giorno tutto il sudicio ingoiato in silenzio per anni, venne a mettercello sull'uscio, a riportarlo al legittimo proprietario.
L’ Isolotto tenne fede al suo nome e, a parte alcune cantine allagate dalle fognature, fu risparmiato, l'argine delle Cascine un metro più basso ci salvò e quasi tutti poterono assistere gratis alla tragedia in corso.

il Piccolo Figlio di Nessuno