L'allarme maremoto è finito nell'oceano sbagliato
Manca un minuto alle ore 7.00 di domenica 26 dicembre quando a dieci chilometri di profondità al largo delle isole Simeulue, a ovest dell'isola di Sumatra, avviene un terremoto di magnitudo 9,0 della scala Richter. Il sisma interessa una faglia di quasi 1.200 chilometri ed è così potente da spostare l'isola di Sumatra, grande tre volte l'Italia, di trenta metri in direzione sud-ovest. Il titanico e repentino spostamento di masse genera in mare una serie di onde anomale che iniziano a propagarsi a una velocità di oltre 500 chilometri al secondo in ogni direzione. Nel giro di pochi minuti il treno d'onda ha già raggiunto le coste settentrionali di Sumatra. Quindici minuti dopo, a molte migliaia di chilometri di distanza, gli strumenti del Pacific Tsunami Warning Center di Honolulu, nelle Hawai, registrano il terremoto. Il direttore del centro, Charles McCreery, avvisa la dottoressa Laura S. L. Kong, responsabile dell'International Tsunami Information Center (Itic), che l'evento produrrà effetti anche nel Pacifico. L'Itic è un centro che afferisce alle Nazioni Unite, finanziato dagli Usa, che, fin dal 1965, ha il compito di informare i paesi e le popolazioni che affacciano sull'Oceano Pacifico sul rischio tsunami. Passano pochi minuti e la dottoressa Kong avverte i rappresentanti dei 26 paesi del network del Pacifico (incluse Thailandia e Indonesia) che nel giro di poche ora le coste delle isole Figji, del Cile e della California saranno interessate da una variazione del livello del mare di qualche centimetro. Proprio mentre gli esperti di Honolulu affinano le loro conoscenze sull'evento
sismico di Sumatra e persino le autorità del Cile vengono informate che
le spiagge del loro paese saranno interessate da un'onda anomala di qualche
centimetro, il treno generato dal sisma nell'Oceano Indiano si abbatte sulle
coste occidentali di Sumatra con onde alte più di dieci metri. E un'ora
dopo, alle otto del mattino, viaggiando a oltre 500 chilometri l'ora, raggiunge
le coste della Thailandia. Passa ancora un'ora, e alle 9 del mattino, il treno
d'onda raggiunge le coste più meridionali della Birmania. Tra la 9.30
e le 10 le onde anomale raggiungono lo Sri Lanka. Alle 10, tre ore dopo il sisma,
il treno s'abbatte sulle Maldive e le coste orientali dell'India. Ancora un'ora,
sono ormai le 11 del mattino, e il maremoto investe le coste occidentali del
grande paese asiatico. Alle 12 tocca al Madagascar. E alle 13 - mentre in Italia
il telegiornale già trasmette le prime immagini della catastrofe in Indonesia,
Thailandia e Sri Lanka - le onde raggiungono la Somalia e la penisola arabica.
La vicenda che abbiamo ricostruito dimostra che non tutto quanto è avvenuto
domenica scorsa era ineluttabile. Che c'era tutto il tempo e c'erano tutte le
informazioni utili a salvare le vite di decine di migliaia di persone, come
hanno sostenuto - tra gli altri - Tad Murty, un esperto di tsunami in forze
all'università canadese di Manitoba, e Brian Baptie, del servizio geologico
britannico. Purtroppo quel tempo è stato speso male. E quelle informazioni
non hanno trovato i canali di comunicazione giusti per risultare utili. Ma chi abita nei paesi poveri ha il medesimo diritto alla protezione di chi
abita nei paesi ricchi. E allora, la vicenda di domenica dimostra che, forse,
la strada migliore è quella di creare un sistema di protezione civile
globale nell'ambito delle Nazioni Unite. Un sistema costituito da un centro
scientifico in grado di gestire la rete di sensori e di lanciare prontamente
l'allarme (si tratta, in pratica, di allargare le competenze del centro di Honolulu
e istituire un World Tsunami Warning Center); da un centro di trasmissione delle
informazioni (si tratta di allargare le competenze dell'Itic che è già
dell'Onu); di creare nelle nazioni a rischio un'organizzazione tale da ricevere
le informazioni e in pochi minuti avvertire in maniera capillare la popolazione
per metterla in salvo. |