Il 3
gennaio 1954 iniziarono le trasmissioni ufficiali
cambiando
il Paese e la nostra vita
La
lunga vita di mamma Rai
dall'Italietta
ai bikini di Stato
di MICHELE SERRA
A RICORDARMI che invecchio,
non bastasse il resto, ci pensa la mia coetanea Rai (1954), che pure simula,
per un malinteso dovere d'ufficio, lo sprint e il chiasso di un'eterna
giovinezza, in faticosa concorrenza con la più giovane e ormonale Mediaset. Ma
mi spiace per lei, la luce dei ricordi è inevitabilmente più sexy rispetto al
non sempre decoroso sculettare della Rai del Duemila, dietro il quale
ineluttabilmente traspare un affanno insincero e anzianotto: sono pur sempre
chiappe di Stato.
È vero che anche la Rai di
allora, per lunghi anni unico specchio del Paese, ne rifletteva, come era
giusto, non solo la voglia di ricostruirsi dopo il fascismo e la guerra, ma
anche lo spirito da tinello e il portamento ciabattone: Corrado fu il maestro
(elegantissimo, a suo modo) di quella italianità spicciola e cinica, Mike lo
sdoganatore sublime della precaria alfabetizzazione di un paese contadino
("pensate, questo signore è professore, sa molte parole difficili!"),
le Kessler, tutto sommato due suore gigantesche, incarnavano l'ideale erotico
di un popolo represso e provincialissimo, che ancora vedeva nelle bionde una
stravagante evasione (e nella tintura per capelli un'eccesso da donna perduta).
Però la piccola borghesia democristiana che dava corpo al potere, dimostrandosi
davvero classe dirigente e non solo tribù occupante, seppe aprire le porte
della tivù di Stato anche agli scrittori, agli intellettuali, agli
sceneggiatori del cinema, agli uomini del teatro e delle lettere. Il complesso
di inferiorità dei funzionari in calzini corti funzionò da volano virtuoso, in
Rai lavorarono Soldati, Pasolini, Zavoli, Arbasino, Gregoretti, Eco, Marcello
Marchesi, Nanni Loy. Sfogliando il bel librone commemorativo
"RicordeRai", di Barbara Scaramucci e Claudio Ferretti, si scopre che
Eduardo debutta in televisione nel 1956, con "Miseria e nobiltà" in
diretta, Roberto Rossellini realizza nel ?59 un "Viaggio in India" in
dieci puntate, Giorgio Albertazzi legge novelle celebri? Gli sceneggiati a
puntate parevano tirati giù diritti da una buona libreria borghese, non su da
un portariviste di parrucchiere come adesso, e il moralismo timorato di quegli
anni, tra tanti difetti, aveva però il pregio di guardare ancora alla cultura
con soggezione. Così come gli italiani umili sognavano il figlio dottore, la
televisione ambiva a sollevare un livello di istruzione allora bassissimo,
magari per perbenismo, magari per non fare brutta figura in società. Ma intanto
lo faceva.
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Il risultato fu uno stile
popolare ma mai gaglioffo, inamidato ma educato. Molto educato. Lo stile dei
nostri padri usciti dalla guerra, per i quali avere camicie ben stirate e due
giacche buone nell'armadio era un segno di decenza e di sollievo. Lo stile
delle nostre madri gentili e apprensive, che arrossivano alle barzellette
sconce e adoravano Delia Scala perché "era così pulita", e Walter
Chiari perché portava lo smoking, lui pugliese e cafone, meglio di Cary Grant.
E parlava un italiano così impeccabile e forbito, Chiari, che oggi lo nasconderebbero,
confinandolo a Rai Educational.
Credo di essere tra quelli
che non hanno perdonato la Rai, l'ultima Rai imberlusconita, più per ragioni
freudiane che politiche. Nel senso che, quando la mia anziana madre sbuffa e
protesta per la volgarità trafelata di certe trasmissioni, mi imbarazzo per
lei. Rimpiango la compostezza del bianco e nero e perfino l'ipocrisia
democristiana, "Studio uno" e perfino le annunciatrici asessuate.
Se è ovvio che la Rai non
avrebbe potuto reggere l'impatto con la televisione privata, e neanche
l'impatto con i tempi, rimanendo ingessata e identica a se stessa, non è
altrettanto ovvio che la strada giusta fosse quella dell'imitazione ottusa del
suo concorrente. Credo, con il senno di poi, che una buona dose di orgoglio
aziendale, e perfino un certo rischio di anacronismo, negli anni fatidici (fine
Ottanta e poi tutti i Novanta) dell'impatto con Mediaset, avrebbero aiutato la
Rai a cercare una sua nuova identità senza svendere il suo patrimonio di stile
e di linguaggio.
Cinque anni fa, quando ebbi
la fortuna di lavorare con Morandi per il suo gran ritorno in televisione,
cercammo fortemente di attingere alla tradizione Rai (ripassando, come scolari,
le cassette di "Studio uno" e dintorni) per costruire un varietà che
fosse immune dal soprattono, dalle tette, dagli strilli, dal clima di eterno
villaggio turistico imposto da Mediaset. E perfino dall'eccesso di colori, dal
gravame di arredi, luci, scenografie che, da "Drive in" in poi, ha
trasformato il varietà da derivato del teatro a "genere televisivo",
ahimé. Direi che ci riuscimmo, e ci riuscimmo anche perché la Rai (Rete uno)
appoggiò con entusiasmo l'esperimento del "varietà scritto", dove la
parola riconquistava tempi e spazi, e il primo piano di chi parlava o cantava
riprendeva forza rispetto alla caciara corale in auge.
L'anno scorso, di nuovo con
Morandi, di nuovo su Rai uno, trovai un clima fortemente e forse definitivamene
mutato. L'ossessione del "troppo difficile", del "troppo
raffinato" fu la vera censura (e autocensura) che l'azienda impose, ben
più cupa e impicciona della censura politica, che pure c'era, eccome.
Semplicemente, non era più la Rai-Rai, era un'azienda spuria, invasa dal
personale politico e culturale del nuovo potere, lottizzata non più dai grandi
partiti popolari ma dal gusto spicciolo della presunta "gente",
miraggio fantasmatico del piazzismo politico-commerciale egemone. Una Rai
triste e nervosa - come chiunque distorca la propria vocazione, il proprio dna
- che si aggrappa ai numeri per illudersi di avere "battuto Mediaset"
non sapendo ammettere che l'audience dei due monopoli non si confronta, semmai
si somma, è il numero indifferenziato di un ascolto ormai indifferenziato.
La Rai è così post-Rai,
oramai, che si resta di stucco, increduli, quando ci si imbatte in un programma
culturale come quello (straordinario) di Philippe Daverio su Raitre, nel limbo
della terza serata. Colto e divulgativo, insieme "difficile" e
chiaro, come la televisione pubblica considerava naturale fare quando Soldati
andava a zonzo per l'Italia intervistando i contadini e descrivendo il
paesaggio, quando Pasolini girava i documentari sugli italiani e l'amore, e
Montanelli e Guareschi fingevano di litigare inventandosi una specie di sit-com
giornalistica molto ante-litteram.
La Rai di oggi è quella che
rimanda oltre i limiti del ridicolo la messa in onda della soap intelligente di
Marco Tullio Giordana sui sessantottini, genere popolarissimo eppure
sospettabile di "impegno" e dunque, chissà perché, di insuccesso. E'
un'azienda che ha paura della propria ombra e della propria memoria, che ha
sostanzialmente rinunciato a cercare nella differenza, nella distonia rispetto
a Mediaset, il percorso di una propria nuova identità di servizio pubblico. Il
dispiacere è forse perfino superiore alla rabbia, ed è un dispiacere che nasce
dalla netta sensazione che un'Italia senza Rai, o con una Rai camuffata da
televisione commerciale, è un paese più povero e più esposto alla banalità. Ma
naturalmente ogni critica, in materia, è sottoposta all'irosa accusa di
faziosità politica e di snobismo intellettuale. Devono essere parecchio snob e
faziosi anche quei milioni di italiani che, nei rari sondaggi sull'argomento
televisivo, mettono lo scadente livello culturale al primo posto tra le lacune
della televisione pubblica. Si vede che hanno memoria, anche loro, di quello
che fu la Rai.
(3 gennaio 2004