Se Cristo potesse risorgere a Bagdad
di Eugenio Scalfari

"... E quelli dissero: Signore, ecco qui due spade. Ed egli: Basta!".


 

Verrebbe naturale per chi scrive su un giornale nel giorno della Pasqua cristiana affrontare il tema della passione, della morte e della resurrezione di Gesù di Nazareth, della preghiera nell'orto del Getsemani, della disperazione del Figlio dell'uomo quando si sente abbandonato da Dio, delle parole misteriose che egli rivolge ai suoi discepoli quando li esorta ad armarsi, lui che ha sempre predicato la pace, la non violenza e l'amore anche per chi ti colpisce e ti uccide. Secondo il Vangelo di Luca fu durante l'ultima cena di Gesù con i suoi discepoli: "Ma adesso chi ha una borsa la prenda e così la bisaccia e chi non ha spada venda il suo mantello per comprarla... E quelli dissero: Signore, ecco qui due spade. Ed egli: Basta!".
Verrebbe naturale di scriverne per cercar di capire ancora una volta il senso di quello splendido racconto del Figlio dell'uomo, della sua vita, della sua gioia, del dolore, del suo amore, della sua crocifissione: il Figlio dell'uomo che è il Figlio di Dio fatto carne per salvare il mondo; oppure il Figlio dell'uomo che gli uomini hanno trasfigurato nel Figlio di Dio costruendo un modello per andare oltre se stessi predicando vita e amore contro le ombre dell'odio e della morte.
Ma più naturale ancora viene di trasferire quel racconto nel nostro presente, mentre una sorta di Apocalisse infuria dovunque e il suo epicentro si svolge proprio in quelle regioni che videro il contrastato sorgere dell'Unico Dio nelle terre di mezzo che stanno tra il Tigri e il Giordano, tra il mare Arabico e il Mediterraneo, tra Bagdad e Gerusalemme.

Quelle terre sono sconvolte dall'odio, devastate dalle stragi, disseminate di rovine. Odio chiama odio, sangue chiama sangue, i combattenti uccidono invocando il nome del loro dio, che non è più l'Unico da quando ciascuna delle parti in guerra ha scritto quel nome sulla propria bandiera.

Proprio nei giorni della Pasqua questo scempio è arrivato al culmine, la violenza ha scacciato la pietà e sembra che il Figlio dell'uomo non debba mai più risorgere dal sepolcro dove il suo corpo flagellato fu riposto. Di questo bisogna scrivere oggi e del perché l'odio ha invaso il mondo e la Bestia ha assunto le sembianza dell'Uomo.

"L'età dell'odio" è un libro appena uscito in Italia. L'ha scritto una cinese che si chiama Amy Chua e insegna alla Law School della Yale University.

Umberto Galimberti l'ha ampiamente recensito su questo giornale, ma ci ritorno su perché la sua lettura è terribilmente attuale. Nell'enorme folla di libri che da tre anni si accatastano per spiegarci con tesi e analisi diverse e contrapposte perché siamo arrivati a questa generale follia, Amy Chua è la sola che, distaccandosi dai fatti che avvengono quotidianamente sotto i nostri occhi, ha saputo entrarvi dentro meglio d'ogni altro arrivando alla loro radice e osservando le cause che li hanno determinati.

Le cause sono chiarissime. Scrive Galimberti: "Il mercato concentra la ricchezza, spesso stratosferica, nelle mani d'una minoranza economicamente dominante, mentre la democrazia accresce il potere politico della maggioranza impoverita. In queste circostanze l'introduzione della democrazia innesca un etno-nazionalismo dalle potenzialità catastrofiche che scaglia la maggioranza autoctona, facilmente istigata da politici opportunisti, contro la minoranza facoltosa e detestata". E scrive Amy Chua: "Negli ultimi vent'anni abbiamo promosso con energia nel mondo intero sia l'apertura liberista al mercato sia la democratizzazione. Così facendo ci siamo tirati addosso l'ira dei dannati".
Questo (e il libro lo dimostra ampiamente con una dovizia di analisi e di esempi che spaziano su quattro continenti) è il fondamento dell'odio antiamericano che stupisce gli americani; questa è la ragione vera della rivolta irachena contro i "liberatori" e delle "intifade" palestinesi contro Israele, ma così avviene dovunque, dalla Cecenia allo Zimbabwe, dall'Indonesia alle Filippine, dal Venezuela alla Sierra Leone, dalla Serbia alla Bolivia e al Ruanda.

Questo è anche il motivo che rende precaria la sorte dei regimi arabi moderati e amici dell'Occidente, gli Emirati, l'Arabia Saudita, l'Egitto e perfino il Marocco e gli altri Paesi del Maghreb. Con una differenza per altro essenziale che rende ancora più drammatico il problema mediorientale: proprio lì, in Iraq, in Iran, in Arabia, negli Emirati, giacciono nel sottosuolo gli otto decimi delle riserve petrolifere mondiali. La maggioranza povera, l'esercito dei dannati, per usare il linguaggio di Amy Chua, ha individuato un capro espiatorio e un tesoro inestimabile che in qualche modo gli appartiene. Ma è pur vero che lasciarlo in quelle mani equivarrebbe a una rivoluzione planetaria dei rapporti di forza. La trappola irachena è questa: non ci si può né restare impigliati né uscirne. Non è il Vietnam, è molto peggio del Vietnam.

Una situazione del genere si verificò nel XIX secolo anche in Europa, che deteneva allora il potere mondiale; e nel XX secolo nel Nord America. Cioè in quei Paesi che nel loro complesso costituiscono l'Occidente. Anche in Occidente la rivoluzione industriale aveva concentrato la ricchezza nelle mani d'una minoranza dominante mentre la democrazia, gradualmente conquistata, accresceva il potere della maggioranza povera, dell'esercito di riserva dei disoccupati, dei lavoratori che soggiacevano alla "legge bronzea" dei salari, infine ai "dannati" di Amy Chua.
Ma in Occidente la rivoluzione industriale aveva suscitato una borghesia vasta, un ceto medio produttivo, un'aristocrazia operaia e anche una cultura laica che aveva creato prima ancora della democrazia lo Stato di diritto, la separazione dei poteri e gli istituti di garanzia che ne costituivano i pilastri. Queste forze capirono che la combinazione tra pauperismo-democrazia-liberismo avrebbe provocato conflitti esplosivi.
Perciò intervennero, moderarono, contribuirono a modificare la natura stessa del capitalismo.

Sotto la pressione dei partiti socialdemocratici, delle leghe contadine, dei sindacati operai e della borghesia liberale nacque un capitalismo sociale che diffuse più rapidamente i benefici derivanti dal profitto e dall'accumulazione della ricchezza. I "dannati" non sono scomparsi, ma non sono stati abbandonati a se stessi e il loro perimetro si è gradualmente ristretto anche se, proprio dal 1989 in poi, il "pensiero unico" liberista imperversante in tutto l'Occidente ha determinato un'inversione di tendenza molto preoccupante, un aumento degli indici di povertà e un indebolimento pericoloso dello Stato sociale e della redistribuzione della ricchezza.

Questa però è la storia dell'Occidente. Purtroppo questa storia non è stata esportata. L'impero americano ha seguito un modello del tutto diverso. Ha fatto sognare i miracoli del mercato e la democrazia di massa in paesi dove lo Stato di diritto non era mai esistito, dove la religione era totalizzante quanto l'autorità civile era evanescente e dove i tassi di natalità delle masse povere erano elevatissimi. Per evitare che la conflittualità sociale desse esiti catastrofici, la democrazia è stata manipolata in modo da favorire dittature e gruppi locali resi partecipi della ricchezza. La storia politica ed economica del Sud America, dell'Africa, del Medio Oriente ne fornisce una plastica rappresentazione, iniziata dal colonialismo europeo (anglofrancese soprattutto) e proseguita con fresca irruenza dagli Stati Uniti, a partire da Theodore Roosevelt in poi. Bush Junior ne rappresenta oggi il concentrato insieme alla sua corte di neocon, che ai suoi Cheney, ai suoi Rumsfeld, alla sua Condi Rice, ma è stato soltanto l'ultimo di una lunga serie.

Qualcuno si stupisce di quanto sia accaduto in questi giorni? Qualcuno si scandalizza delle parole di Giovanni Paolo che ricorda continuamente i deboli e gli oppressi della terra? Qualcuno pensa che quelle parole e le parole dei pacifisti di buona fede siano belle utopie spazzate via dall'intelligenza della realpolitik, mentre invece proprio quelle parole contengono una saggezza politica che è la sola a poter portare l'Occidente fuori dalla trappola mediorientale e alleviare la condizione dei "dannati"?

L'Onu, in queste condizioni da mattatoio, non andrà in Iraq, questo è ben chiaro. Del resto cambiare il colore del casco ai militari Usa non servirebbe a niente.
Molti ormai riconoscono che la guerra contro Saddam Hussein è stata una pura follia, ma raccomandano di pensare non più a ieri ma ad oggi e a domani.
Non vogliono capire che per pensare al domani bisogna essere ben consapevoli degli errori spaventosi commessi ieri: dal governo di Bush e dai governi che l'hanno affiancato condividendo con esso l'errore esiziale d'una guerra pericolosissima nonché la rottura grave della legalità internazionale.

Occorre dunque, come primissima cosa, che cessi il mattatoio, che i soldati americani smettano di sparare nel mucchio come sta accadendo a Falluja e in gran parte delle città irachene. Questo non fermerà il terrorismo di Al Qaeda ma indebolirà la spinta ribellistica delle milizie sciite di Al Sadr e darà respiro agli iracheni meno propensi alla violenza che forse rappresentano la maggioranza d'una popolazione così duramente provata.
Se cessa il mattatoio forse l'Onu tornerà a Bagdad ma ci tornerà alla sola condizione che non solo l'assistenza e la consulenza politico-costituzionale ma anche la gestione della sicurezza e dell'ordine pubblico siano concentrate nelle sue mani e in quelle del costituendo governo provvisorio iracheno (il simulacro di governo insediato da Bremer è in corso di rapida liquefazione e va inevitabilmente rifatto).

L'ordine pubblico deve essere negoziato, come hanno fatto i nostri bravi militari a Nassiriya dopo aver dovuto eseguire l'ordine dissennato del comando inglese di Bassora, a sua volta indirizzato dal comando supremo Usa in Qatar, di sgombrare con la forza i tre ponti sul Tigri. Un episodio del genere non dovrebbe mai più essere ripetuto da un contingente militare che è stato proclamato non belligerante e umanitario.
Negoziare l'ordine pubblico non con i terroristi ma con le fazioni tribali e religiose irachene. Con i terroristi o con chi ne adotta i metodi non si può e non si deve negoziare nulla; personalmente condivido al cento per cento la decisione di non trattare per il rilascio degli ostaggi rapiti. Non c'è altra strada se non si vuole che il caos di oggi si moltiplichi per mille. Ma poi?

Poi bisogna che l'Occidente fornisca all'Onu i mezzi economici per ricostruire il Paese, sanarne le ferite, rilanciare la produzione e la vendita del petrolio incassandone i proventi e destinandoli alla ricostruzione. Alla domanda su che cosa debba fare l'America la risposta, nell'interesse dell'America, è una sola, dettata dalla ragione: l'America deve passare la mano mettendo i suoi generali e le sue truppe, insieme a tutte le altre che già sono sul terreno e a quelle che dovrebbero andarvi ora, agli ordini di un comando multinazionale integrato che risponda direttamente al segretario generale delle Nazioni Unite.
Se gli Usa e i loro attuali alleati non capiranno che questa è la sola svolta possibile e auspicabile, allora gli Usa se la sbrighino da soli o con chi sciaguratamente voglia restare.