Baghdad, festa di matrimonio.
Baghdad, notte tra il 16 e il 17 Maggio 2004 -- Con un 737 con equipaggio interamente russo, alle 5.30 del mattino e con due ore di ritardo sulla partenza, finalmente decolliamo in direzione della nostra meta, l’Iraq.
Circa settanta persone, ma stracolmo all’inverosimile,
tanto che gli aiuti occupano oltre che il vano di carico dell’aereo,
anche il resto dei posti rimasti liberi. Tutti insieme: lo staff della CRI
per il consueto cambio di addetti presso il loro ospedale; tre giornalisti
ed un operatore di Sky News , una dottoressa del centro di ricerche archeologiche
di Firenze. Poi donne, bambini ed accompagnatori iracheni che sono stati curati
o hanno dovuto subire interventi, a Trieste nel centro clinico del Professor
Andolina ed in altri centri specializzati del nostro paese. Una discesa a vite spaventosa, una vera caduta in verticale
alla pista di atterraggio, che mi dicono serva ad evitare i rischi di trovarsi
sotto la mira dei razzi della resistenza irachena, terrificante anche per
i non principianti del volo, qualcuno vomita e forse qualcun altro si chiede
in quale parte stiamo andando a schiantarci, il pilota russo è bravo.
Risaltano le sue qualità di ex pilota da caccia dell’aviazione
militare, come apprenderò all’arrivo. Scendiamo le scalette dell’aereo
mentre alcuni elicotteri americani sfiorano la pista di decollo. Quando arrivo all’ospedale, trovo già Bahaa, un
giovane studente della facoltà di lingue che mi aspetta per portarmi
a casa sua e lungo il tragitto mi dice: guai se vai in albergo, sarai ospite
della mia famiglia; non aggiungo altro mentre viaggiamo verso Dora, una lontana
periferia di Baghdad, meglio conosciuta per la localizzazione della raffineria
di petrolio difesa durante la guerra dagli scudi umani e per le scuole della
chiesa caldea. E’ giovedì, Baghdad si scatena, con i suoi cento e cento matrimoni, una allegria legittima e contagiosa che sembra di grande contrasto in mezzo com’è ai mille tamburi ritmati dei continui scoppi delle armi. Un giovedì denso di paure. Un giovedì come tutti gli altri da più di un anno a questa parte. Il giorno dei matrimoni, il giovedì, per tradizione, è come se Baghdad si sollevasse di colpo dalla stanchezza di un embargo, di una guerra e di una occupazione senza pietà. Dopo il matrimonio, tornando verso la casa dei miei amici ho
pensato che in fondo avevo fatto bene ad accettare il loro invito, si
è rivelato uno dei momenti più belli mai vissuti in questi anni
di continui viaggi verso l’Iraq.. Io non resisto e voglio vedere la sposa; senza nessuna esitazione
tutti i parenti mi danno il loro assenso ed insieme allo zio, ci avviamo in
casa. Lei è bellissima vestita di bianco, come le nostre spose, circondata
da forte vociare delle amiche, delle sorelle e delle cugine. Tutte altrettanto
belle e senza veli. Sono già le sette di sera, quando a un cenno dello
sposo gli uomini si dirigono a passo deciso verso i tavoli imbanditi. Ed è a questo punto che scopro l’altra Baghdad, l’altra faccia di una città che non conoscevo ancora: una città descritta dai giornalisti “ embedded ” che alloggiano al Palestine o alla Sheraton senza mai mettere il naso fuori per le strade della città.come una sorta di città degli orrori. La Baghdad che è sotto i miei occhi rivela un’anima a me ancora sconosciuta: la città della gioia temporanea, della musica e delle danze.Dove la vita è più forte di qualsiasi guerra e occupazione. Di qualsiasi crudeltà. Ogni tanto la musica della orchestrina viene coperta dai rumori
dei caccia e degli elicotteri Usa che ci sorvolano incessantemente. Tutti
pensano che vadano in direzione di Karbala, mi dicono che proprio Karbala
e Najaf sono sotto bombardamento in queste ore. Molti invitati sparano colpi in aria in segno di giubilo con
le loro pistole A tratti lo strepitio delle armi è così intenso
che potrebbe essere scambiato per quello di una battaglia vera. Qualcuno mi
offre la sua una pistola per partecipare alla sparatoria generale, garbatamente
rifiuto. Ho sonno, è già notte quando torno a casa
dei miei amici, ma porto con me la certezza di aver visto, sentito e vissuto
qualcosa cose che altri non vedranno mai. O che non vogliono sentire e vedere.
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