«Vi racconto l’inferno che ho visto a Falluja»
- di Gino Strada
Da l'Unità, 9 maggio
ROMA - Gino Strada è appena arrivato a Baghdad da Falluja. Ora è
nel suo piccolo albergo sconosciuto e fuori mano. La giornata è stata
faticosa e dura, nella città ferita a morte da settimane di assedio
e bombardamenti, la gente è esasperata. Un gruppo di persone ha circondato
il convoglio di «Emergency» urlando frasi minacciose. «Andate
via, altrimenti bruceremo i vostri camion, non vogliamo il vostro aiuto, tornate
a casa vostra e portate con voi i soldati italiani...». Prima di parlare
di cosa ha visto a Falluja, la cronaca ci impone di chiedere notizie sugli
ostaggi ormai da un mese nelle mani delle «Falangi verdi di Maometto».
Strada ha notizie sulla sorte di Agliana, Cupertino
e Stefio?
«Posso solo trasmettere delle impressioni, delle mie sensazioni. Di
questo si tratta, visto che non si sa né chi detiene gli ostaggi, né
in quale città sono prigionieri. Se devo giudicare dalla quantità
di rabbia che vedo in giro tra la gente comune, uomini, donne, anziani, persone
che sono ferite dalle immagini delle sofferenze delle vittime civili di questa
guerra assurda, dalle foto delle torture e delle pesanti umiliazioni inflitte
ai prigionieri, devo dire che questo sequestro avrà tempi molto lunghi.
Non è una vicenda che possa risolversi in pochi giorni e neppure in
poche settimane. Mi addolora dirlo, ma i tempi non saranno brevi».
Lei ha contatti, ha già avviato una trattativa
con i sequestratori?
«Certo che abbiamo contatti, ma parlare di una trattativa è sbagliato.
Noi non abbiamo da offrire contropartite economiche o politiche. Abbiamo solo
fatto una richiesta precisa: liberate i prigionieri, fate questo gesto umanitario.
E abbiamo la speranza che questa richiesta possa essere accolta, perché
viene lanciata da “Emergency”, una organizzazione umanitaria e
pacifista che in nove anni ha curato 280mila civili iracheni senza chiedere
nulla in cambio. Questa è la nostra credibilità, crediamo che
sia sufficiente per trovare ascolto. Il messaggio è stato lanciato,
a noi tocca solo aspettare e soprattutto continuare il nostro lavoro di assistenza
umanitaria alla popolazione civile».
Ieri un convoglio di Emergency è arrivato a Falluja,
quali sono le condizioni della città?
«A Falluja abbiamo visto macerie, distruzioni, morte, sofferenza, rabbia.
Decine di case sono letteralmente appiattite, non c’è acqua,
non c’è energia elettrica, l’ospedale è allo stremo.
I medici erano arrabbiati con il ministero della Sanità del governo
provvisorio che ha barato sul numero dei civili morti. Ecco le cifre vere:
700 morti, di cui 80 bambini, 1700 feriti,. molti dei quali morti di setticemia.
Perché nei giorni dell’assedio, ci hanno raccontato i sanitari,
era difficile portare i feriti con le ambulanze. L’ospedale si trova
al di là del ponte sull’Eufrate, gli americani sparavano sulle
ambulanze, distruggendo le uniche tre a disposizione. Hanno ucciso medici
e infermieri. Nell’ospedale non c’erano medicinali, molti feriti
sono stati curati come si poteva in quelle condizioni. Molti sono morti. Molti
morti sono ancora sotto le macerie».
Ci sono stati momenti di tensione?
«La gente è esasperata, la tensione c’è e come.
Un piccolo gruppo ci ha circondati urlando frasi minacciose, volevano bruciare
i nostri camion con gli aiuti. Fortunatamente avevamo organizzato il convoglio
con l’aiuto delle autorità religiose del posto facendoci precedere
dal lancio di volantini nei quali si spiegava il carattere umanitario della
missione e il ruolo di «Emergency» nel mondo pacifista italiano.
Abbiamo spiegato che “Emergency” è parte di quella maggioranza
di italiani che è contro la guerra, contro l’aggressione all’Iraq
e contro la politica del governo italiano. Devo dire che il nome del nostro
presidente del Consiglio è molto pronunciato a Falluja, e sempre preceduto
da aggettivi non certo gentili».
Quanto camion avete portato?
«Dieci, con acqua, teli per costruire tende, cibo per
bambini, medicinali, fornelli per il cibo e per bollire l’acqua. La
gente usa quella del fiume e i medici del posto temono l’esplosione
di una epidemia di colera.
Avete incontrato l’imam Abdullah Al Jaanabi, la
massima autorità religiosa della città?
«Non è stato possibile, abbiamo parlato col figlio, al quale
abbiamo consegnato gli aiuti, e al quale abbiamo ribadito che la nostra presenza
ha l'obiettivo di aiutare la popolazione civile, un gesto di solidarietà
nostra e degli italiani che non hanno mai voluto questa guerra contro gli
iracheni»
Porterete altri aiuti?
«Certo. Abbiamo fatto una riunione con i medici per fare un elenco delle
cose che servono. Nei prossimi giorni porteremo dai nostri ospedali del nord
medicine, supporti chirurgici, materiale sanitario, quello che serve.
Qual è la cosa che l’ha colpita di più?
«Le distruzioni, la morte di tanti civili innocenti, le sofferenze inflitte
ai bambini, ma anche la rabbia. Ce n’è tanta in giro. Mi hanno
colpito quei ragazzini di undici anni armati di tutto punto e con la faccia
indurita dall’odio»
Qualcuno sta ostacolando il vostro lavoro?
«Se lo stanno facendo sono così bravi da non farsene accorgere.
Noi siamo in un alberghetto, lontano dagli hotel frequentati dai giornalisti
e dalle spie. Non abbiamo rapporti con le autorità italiane che comunque
rappresentano un paese occupante. Noi siamo “Emergency”, una organizzazione
umanitaria. Questa è la nostra forza. Questo mettiamo sul tavolo della
salvezza dei tre ostaggi italiani»