Il Quirinale sotto assedio
- di Massimo Giannini
"UNTO" per la seconda volta dallo Spirito Santo nel rito mistico
del decennale di Forza Italia, Silvio Berlusconi inaugura la "fase due"
della legislatura con un duplice obiettivo: schiantare avversari e alleati alle
elezioni europee di giugno, sfiancare Ciampi per costringerlo alle dimissioni
anticipate dal Quirinale nel 2006.
Il primo obiettivo è palese, e quasi scontato: risponde alla fisiologia
dei rapporti di forza con la quale si è forgiato l'Imprenditore d'Italia.
Il secondo obiettivo è nascosto, e desta qualche inquietudine: conferma
la genesi patologica del populismo berlusconiano.
Con l'attacco all'euro di venerdì scorso, malgrado la debole e solo apparente
correzione di rotta nel discorso pronunciato al Palaeur, il Cavaliere rende
manifesto un conflitto istituzionale che in quest'ultimo anno era solo latente.
Tra il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica si è
esaurita da tempo la fase della cooperazione. Ma dopo il rinvio alle Camere
della legge Gasparri rischia di essere superata persino la fase della "coabitazione
all'italiana" alla quale ormai si era acconciato lo stesso Ciampi. Quel
rapporto "minimo" tra due entità statuali, sempre più
distinte e sempre più distanti, che tuttavia conservano almeno il rispetto
formale imposto dal galateo istituzionale.
Ormai non c'è neanche più questo, nelle parole risentite pronunciate
dal premier la settimana scorsa, e soprattutto nei suoi fragorosi silenzi di
queste ultime ore. L'offensiva di Berlusconi contro la moneta unica è
eloquente: nel brandire la "clava azzurra" che bastonerà i
governi dell'Ulivo per tutta la campagna elettorale, il Cavaliere non può
non aver calcolato che sotto i suoi colpi sarebbe finito non solo Romano Prodi,
ma prima di lui il Capo dello Stato.
- Pubblicità - Non può non aver valutato l'impatto dell'assalto
orchestrato dal Carroccio. Sull'euro, dalla piazza di Milano, Bossi declina
alla simpatica maniera leghista l'attacco iniziale dell'uomo di Arcore. "La
rapina del millennio", la chiama. E non gli basta: "La moneta amata
dai massoni", aggiunge. Berlusconi ascolta. E tace. Sulle banche e il caso
Parmalat Mario Borghezio lancia il tipico anatema padano: "Il cameriere
Ciampi deve imparare la lezione". Berlusconi ascolta. E tace.
Sul tricolore Alessandro Cè sibila la rituale minaccia nordista: "Ciampi
deve essere il presidente di tutti, oppure ci pensiamo noi". Berlusconi
ascolta. E tace.
C'è qualcosa di più, rispetto alla voglia esplicita di cavalcare
un tema attuale e popolare, che anche a costo dell'ennesima manipolazione della
verità può portare comunque voti al "partito personale".
C'è qualcosa di più, rispetto alla volontà implicita di
rafforzare, dentro la rissosa coalizione di centrodestra impegnata da oltre
sette mesi in una "verifica permanente", il governo delle "due
B" (Berlusconi-Bossi) contro il sub-governo delle "due F" (Fini-Follini).
Quel "di più" - che se non è il movente previsto è
quanto meno l'effetto prevedibile della mossa del Cavaliere - si può
intuire facilmente.
Offuscare l'immagine del Quirinale. Delegittimare chi lo occupa. Metterlo sotto
pressione, di qui alla fine del 2006. Per lavare l'onta della mancata promulgazione
di una riforma delle tv rigorosamente incardinata sul "Sic", senza
il quale Mediaset cederebbe una concessione sul mercato televisivo e perderebbe
quote sul mercato pubblicitario. Per vendicare la bocciatura del Lodo Schifani
da parte della Consulta, sulla cui legittimità qualche ufficio del Colle
aveva forse dato qualche garanzia riservata ai consiglieri di Palazzo Grazioli.
È una sommessa "dichiarazione di guerra" al Quirinale. E postula
una battaglia finale. L'elezione del prossimo presidente della Repubblica. Berlusconi
- secondo gli inquilini della Casa delle Libertà che lo frequentano -
è sfibrato dalla seconda esperienza a Palazzo Chigi. L'"uomo del
fare", oggi come nel 1994, non regge le vischiose e paralizzanti liturgie
del "teatrino della politica". Ha dimostrato di saper vincere, non
di saper governare. Ma scarica le responsabilità sul "sistema",
non riconoscendo il sorprendente deficit di leadership che ha obiettivamente
dimostrato in questi due anni e mezzo.
Per questo è tornato ad accarezzare il suo grande sogno. Succedere a
Ciampi, facendosi eleggere da questo Parlamento, nel quale la coalizione che
lo sostiene conta su una maggioranza totale, tra Camera e Senato, di 169 seggi
rispetto all'Ulivo. Per riuscirci, il Cavaliere ha bisogno che Ciampi (volente
o nolente) lasci il Colle in anticipo rispetto alla scadenza naturale del settennato.
Il rischio è che di qui alla fine della legislatura si apra una stagione
di scontro sistemico. È probabile che Berlusconi usi tutti gli strumenti
che ha a disposizione - dalla campagna di discredito sull'euro al super-premierato
previsto nel pacchetto di Lorenzago - per indurre il presidente della Repubblica
a gettare la spugna prima dell'aprile 2006 (ultimo mese della presidenza Ciampi)
e prima del giugno 2006 (ultimo mese di "vita" dell'attuale Parlamento).
Questo si nasconde, dietro le ultime manovre del premier. Ormai ne parlano apertamente
anche i suoi alleati della Cdl.
Con qualche preoccupazione. Non si può spiegare diversamente la ferma
difesa di Ciampi, e l'aspra controffensiva su Berlusconi e Bossi, che proprio
sul tema cruciale dell'euro è arrivata ieri dal leader dell'Udc Marco
Follini, con l'ovvia benedizione del presidente della Camera, Pier Ferdinando
Casini. Sulla stessa frequenza si muove Gianfranco Fini: il vicepremier non
dimentica che l'unica scelta autenticamente bipartisan compiuta dai Poli nella
travagliata transizione del maggioritario all'italiana è stata proprio
l'elezione di Ciampi alla presidenza della Repubblica. Un "patrimonio"
modesto, se si vuole, ma il leader di An non vuole lasciarlo alla sinistra.
Ancora una volta, quello che Marco Tarchi chiama "il sottofondo plebiscitario
del populismo di Berlusconi" tende a far premio su tutto. Sulle maggioranze
e sulle opposizioni. Sulle regole e sulle istituzioni. La sovranità del
popolo, al quale il Cavaliere si rivolge senza mediazioni, non può sopportare
limiti di sorta. Il fatto nuovo, e confortante, è che Ciampi non gli
farà cortesie "indebite". Come ripete da mesi a chi va a trovarlo
sul Colle, e come ha già annunciato sabato nella sua Livorno, resterà
al suo posto "per altri due anni e tre mesi", cioè fino all'ultimo
giorno del suo mandato. Nessuno glielo aveva chiesto. Il fatto che abbia sentito
il bisogno di dirlo vuol dire che il Capo dello Stato non accetterà compromessi.
In quasi cinque anni, di fronte alla retorica telecratica del premier e agli
allarmi "anti-regime" dei girotondi, ha opposto una "resistenza"
leale, equidistante e mai "partigiana" sulle questioni di fondo. Oggi
si può permettere di fare qualsiasi "battaglia". In nome della
Repubblica e del popolo italiano, che rappresenta molto di più di chi
vorrebbe "sfrattarlo".
(27 gennaio 2004 )